La grotta di San Leo, legata probabilmente alla laura di Sant’Isidoro come una delle tante spelonche usate dai monaci del Monastero suddetto, è uno dei pochi anfratti eremitici che conserva resti di affreschi nel territorio del Poro.
L’agiotoponimo, come osserva il Minuto, è legato probabilmente ad un isicasta di nome Leo, di cui non c’è pervenuta una agiografia e che è quindi da annoverare tra i tanti «asceti del silenzio» che popolarono la Calabria, che decise di lasciare il contesto antropico (quindi di “prendere famigliarità con le bestie selvatiche”) che con la preghiera, l’ascesi e la mortificazione del corpo, rinchiudendosi in una grotta strettissima, cercava di proiettarsi verso colui che si è rivelato nel Verbo Incarnato.
In passato la spelonca era di dimensioni più grandi rispetto a quelle attuali e aveva un piccolo ingresso, di cui rimangono resti di muratura, oggi, invece, è larga 4,7 metri ed alta circa 2 metri e dall’esterno della stessa si abbraccia con lo sguardo tutta la parte interna di forma semicircolare che presenta le pareti coperte di affreschi.
La parete di fondo è divisa in cinque quadri rettangolari, disposti verticalmente. Del primo affresco, che raffigura l’adorazione dei Magi, rimangono delle piccole porzioni. Il secondo affresco, che rappresenta un Santo Papa e reca l’iscrizione S(anctus) C(?) P(ontifex) M(aximus), si conserva ancora in discrete condizioni. Il terzo, che raffigura il cosiddetto “Trono di Grazia” col Padre in trono benedicente che sorregge dalle due estremità la croce col Figlio crocifisso sovrastato dallo Spirito Santo un forma di colomba, appare rovinato, ma quasi integro nel suo insieme. Il quarto affresco, che raffigura una Madonna sul trono con Bambino, culmina in alto con un arco schiacciato e rispetto ai primi tre appare in una posizione più elevata. Questi primi quattro affreschi, che rimontano alla seconda metà del XVI secolo, sono caratterizzati da una iconografia comune e delimitati ai lati da un cornicione blu. L’ultimo affresco, il più rovinato, riproduce l’iconografia della deisis: di esso si intravede appena l’immagine di Cristo, molto rovinata dall’umidità, e, più leggibile, la Theotokos, non leggibile invece è la figura di San Giovanni prodromo. Quest’ ultima composizione risulta schiacciata, frontale, tipica dell’iconografia bizantina e per il tema e per l’esecuzione, quindi tale affresco, perciò, è decisamente precedente a quelli presenti sul lato sinistro e centrale delle parete e può essere ascritto al secolo XI.